G. Luca Chiovelli
Febbraio, marzo ... gli olivi. Tempo di potature; e di concimi.
Invecchio, eppure questi mesi dell'anno mi son sempre cari. Arrivo la sera, apro la casa di campagna, chiusa da mesi. Il fiato si vaporizza: l'interno è gelido, ma va bene così
Scarico i quattro stracci di bagaglio. Lo sistemo, mi lavo.
Esco di nuovo: nell'aria crepuscolare annuso l'odore lieve e millenario della legna bruciata.
Passo nel magazzino. Anche qui odori: gli afrori grassi e dolci della raccolta precedente. Di olive passate, di terra. Preparo la scala, gli attrezzi da poto, secchi da misurazione, un'accetta, un forcone; un accendino e miscela di risulta per il rogo delle frasche.
La mattina arrivo presto sul campo. Un bel solicello. Lavoro a gruppi di due ore. Due ore. Cinque minuti di riposo. Due ore e cinque minuti. Verso le undici, però, come al solito, sopravviene la crisi.
Da soli, senza un'anima a cui parlare, i pensieri della vita sovrastano la volontà.
"Ma chi me lo fa fare?" mi dico. La stanchezza induce alla depressione nera. La crisi la riconosco. È come un fugace, ma violento attacco di bile nera. Ti prende voglia di mollare e mandare il mondo al diavolo. Lo so, è così. Poi ci si calma; la forza rifluisce lenta nel corpo. Ancora sulla scala, e si riprende a segare, a tagliare e a bestemmiare. Si arriva di conserva sino all'una, pausa per il pranzo. E poi ancora e ancora; dalle due in poi la strada è in discesa: ti prende addirittura la voglia di restare.
Ma si bestemmia, questo sì, dal primo all'ultimo minuto.
La bestemmia, inutile negarlo, è parte fondamentale del mio lavoro campagnolo.
Senza bestemmia non si potano olivi.
La bestemmia va di pari passo con gli imprevisti: la scala che scivola, un ramo che non cede, il piede che inciampa nelle buche scavate dai cinghiali, le foglie che entrano negli occhi.
Le mie bestemmie vantano un'ombra d'originalità. Mi vengono spontanee, così. Aborro termini come porco (o porcone), bestia, cane, ladro, zozzo, bastardo quali apposizioni alla Divinità Somma o alla Paredra d'Essa (lurida, zoccola, sbudellata, maiala, vecchia et cetera).
Ignoro, inoltre, lo Spirito Santo (troppo impalpabile); i santi; e Gesú e Maria, per i motivi che spiegherò.
I miei moccoli non arrivano al neologismo o all'insensatezza degli apax surrealisti; eppur son birichini. Così la divinità è, per me, di volta in volta: biscazziere, lupacchiotto, infingardo, statale, balordone, squallido, calimero, sfiatato, trucido, anodizzato.
Dio statale ... chissà da quali recessi di odio e revanscismo giustizialista promana ...
Nelle plaghe desolate del Viterbese, al confine con l'Umbria, si bestemmia con un certo gusto, seppur con scarsa fantasia; la bestemmia esprime uno stato d'animo, ma tale eruzione intima è smorzata dalla codificazione. Pochi vi si sottraggono.
Solo un mio conoscente divagava leggiadro dai topoi: svizzero (o svizzera) era una sua variante. Biciclettaro. Oppure ghiotto.
Questo ho notato nella bestemmia della Tuscia: più alto è il grado metafisico, più la bestemmia è atroce. E viceversa: a mano a mano che ci si allontana dall'astrazione, si prova vergogna. L'entità platonica (Dio), nella propria genericità, permette la blasfemia. Gesù o Maria, invece, non la tollerano, perché i nomi di battesimo degli dei cristiani, grazie alla loro calda empatia da presepe, ci avvicinano al recinto sacro: un luogo inviolabile che coincide con quello familiare. Pochi bestemmiano Gesù: il Bambin Divino riecheggia, per corde spirituali insondabili, la madre, e questa la famiglia, e perciò l'infanzia: la nostra breve felicità.
Ma torniamo a noi.
Verso le quattro raccolgo le frasche a mucchi; le cataste delle settimane trascorse, già rinsecchite e prive di foglie, prendono fuoco velocemente, con crepitii sommessi.
A quell'ora gli elicotteri della forestale sono già rientrati alle basi e posso sfogare la mia genetica piromania con un bel godimento. D'altra parte il soprannome del mio avo paterno era Brucialetti: da bambino aveva dato fuoco al pagliericcio del padre (un lenzuolo imbottito di foglie di granturco) e il nomignolo gli era stato imposto a forza di risate (il ramo familiare paterno è ricco di eccentrici; da qui deriva, probabilmente, il mio sotterraneo disprezzo per l’autorità; e pure per l'autorevolezza).
Intanto la vampa si alza gioiosa; le fiamme alimentano altre fiamme. Torno in macchina, apro il bagagliaio. A fatico mi carico sulle spalle un sacco nero: contiene almeno cinque dozzina di libri. Lo trasporto (bestemmiando, ça va sans dire) nei pressi del rogo, e mi preparo alla liberazione.
L’ho già scritto in passato: i libri mi sono venuti a noia. Scrissi pure, se ricordo bene, qualcosa di più impegnativo:
“Aspiro a una biblioteca di cinque libri”.
La coerenza, perciò, ora esige il suo tributo: e io passo dalle parole ai fatti; bruciando il sovrappiù. Anche Nietzsche, lettore accanito, capitombolò, prima di dar fuori di matto, alle stesse conclusioni. E lo stesso aveva fatto Pepe Carvalho, il personaggio di Montalban. Entrambi credevano che la lettura, questo mondo irreale, fosse d’ostacolo alla vita.
Forse. Ma c’è di più.
Io credo che la lettura non sia che l’ancella della conoscenza. E non d'una conoscenza particolare: la politica, l’economia, la storia, l’eloquenza, il femminismo ... ma di quella suprema: la morte.
Tutto si risolve nella morte, la sapienza è morte, l’intera metafisica è studio della morte. La morte sovrasta e non tollera che l’eccezione d’una breve esistenza, che può essere, o meno, illuminata dall’amore.
Tutto, tutto, ci parla di questa dialettica insuperabile: la Morte dominatrice e il barlume che vi si oppone. Un baluardo oltre il quale nessuno può scrutare, come l’orizzonte degli eventi d’un buco nero.
E la migliore letteratura e i migliori libri non parlano che di questo conflitto imperituro.
E voi direte: ma cosa c’entra bruciare i libri?
Semplice. Dopo aver letto e compreso i grandi libri sulla morte che senso ha tenere gli altri? Dopo aver letto e compreso Catullo o Shakespeare o Guido Cavalcanti che diavolo ci faccio con Marx, Umberto Eco e Calvino e Nicola La Gioia? La Nothomb, Eston Ellis? Persino Balzac e Flaubert suonano stonati al confronto.
Letto e compreso, si badi. Si può leggere Amleto e non comprenderlo mai. Ma se lo si comprende davvero … quella filosofia definitiva entra in circolo e rende folli e definitivi come lei … e il resto è solo fango. Tutti i libri sono aria, fuffa … non si può prenderli sul serio.
Milioni di libri sono meno importanti di un verso.
O di tre versi:
“Egli aveva un dolore negli occhi
come chi abbia visto l'inferno
ed è sul punto di parlarne ...”
Se abbiamo compreso l’inferno, tutto è inutile. Tutti i libri sono inutili … una biblioteca di cinque libri, non altro.
Forse di due libri. Ma sì, mi ci voglio far seppellire con la mia biblioteca di due libri.
E il resto, pian piano, al rogo.
Per bruciare bruciano bene.
Con Baudolino appicco pure un altro focolaio. Ci getto sopra Malaparte, La Capria, Zola e un paio di Newton Compton. Pure Homo ludens di Huizinga, tanto non lo leggerò mai. Pavese, Pratolini. qualche testo esoterico (Il mattino dei maghi, I grandi iniziati, Uomini bestie e dei…); Farmer e Vonnegut; parecchi gialli; Love Peacock; Elsa Morante, la Yourcenar … Gide, Merimée. Testi sulla grecità: Detienne, Graves e il Kerenyi (che confusionario, ragazzi); Giorgio Bocca; Pennacchi; persino un Malvaldi … Garcia Marquez, con la sua arietta da telenovela … un grande scrittore, ma inutile, come tutti …
Una volta scrissi questa riflessione:
“Ciascuno di noi possiede delle gerarchie di valore; gli scrittori amati che si cercano nelle edizioni più preziose, oppure i testi classici, o quelli fondamentali per la nostra attività di lavoro e d'interesse, o, semplicemente, ciò che amiamo rileggere di tanto in tanto.
Tale pantheon è costituito da ciò che resta sul fondo di un setaccio.
All'inizio della nostra carriera di lettori gettiamo in esso di tutto: Salgari, Verne, Alcott, i primi innamoramenti, i libri occasionali o quelli consigliati a scuola, i ghiribizzi, i monumenti letterari, le scoperte personali. Col tempo vedremo il pulviscolo o la materia di poco spessore filtrare inevitabilmente attraverso i fori e disperdersi nel vento dell'indifferenza; nel fondo del vaglio rimarranno i sassetti più consistenti. Quindi, negli anni, continueremo letture ed esperienze; il tempo e le delusioni arriveranno implacabili ad assestare i nostri giudizi; lo sguardo si farà più disincantato e cinico; parecchio più accorto; sarà allora che, divenuti esigenti, allargheremo il diametro dei fori del nostro setaccio: assieme alla pula, allora, se ne voleranno via anche alcune pietruzze e granelli ch'erano sopravvissuti alla prima cernita. E così via, per tutta la vita. Infine, al fondo, rimarranno intrappolati solo i pezzi più pesanti e pregiati o alcune pietre dalla forma inusitata e irregolare”.
Da allora sono divenuto ancora più esigente … Cinque libri, non di più … e poi due. E il resto se lo prenda il fuoco e il diavolo.