Matteo Maria Boiardo, conte di Scandiano, è un poeta primaverile. Almeno quanto Dante e Shakespeare sono autunnali.
In lui rileva la gioia di vivere e l'amore, fondamenti del vivere umano e della civiltà. E la sua lingua, ricca delle dolci assibilazioni tipiche del dialetto emiliano, riflette questa tendenza, che è anche filosofia di vita.
Boiardo, come Petrarca, è un monolinguista; come Petrarca (e Leopardi e Poliziano) parla di alberi, uccelli e rivi, così, in generale, aborrendo nomi propri e particolarismi. Il suo versificare è chiaro, senza doppi fondi e concede tutto alla musicalità del tono; d'altra parte perché non dovrebbe esser così? Per questo abbiamo ballate, sonetti e canzoni: la voce deve fluire assieme alle parole, come un ruscelletto sommesso e cristallino; e come la navicella del poeta, un mirabile convoglio d'amore, d'avorio, oro e coralli (i colori del viso dell'amata), che scivola su un mare tranquillo, ignara dei moti del destino avverso, fiduciosa nel proprio fermo sentimento, che altro non vuole e più non desidera.
De avorio e d’oro e de corali è ordita
la navicella che mia vita porta;
vento suave e fresco me conforta,
e il mar tranquillo a navicar me invita.
Vago desir coi remi a gir me aita,
governa el tempo Amor, che è la mia scorta,
Speranza tien in man la fune intorta
per porre il ferro adunco a la finita.
Così cantando me ne vo legiero
e non temo de’ colpi de fortuna
come tu che li fugi e non sciai dove.
Crede a me, Guido mio, che io dico il vero:
càngiasse mortal sorte or bianca or bruna,
ma meglio è morte qua che vita altrove.Da Canzoniere. Amorum libri, 1990 (cura di Claudia Micocci)