G. Luca Chiovelli
Oh, ci si intenda subito: magari qualcuno troverà la letteratura italiana, nel suo complesso, di buona fattura. Magari vi troverà opere completamente fallimentari; o negative; ma anche picchi positivi; eccezioni lodevoli; non di rado, ben ruspando, tale lettore (oso dirlo) rinverrà addirittura capolavori. Chi sono io per giudicare un tale giudizio? Nessuno.
Dipende a quali altezze ci si è inerpicati nella vita. Da certe vette (se si ha avuta la pazienza di scalare certe vette) la letteratura italiana fa, inevitabilmente, schifo.
È un ribrezzo non solo estetico (passi!), ma anche umano: come a toccare il ventre d’un rospo demoniaco. Persino le librerie suscitano ormai orrore; passeggiare nei dintorni d’una di esse (una a caso), subire lo squallore delle sue vetrine riesce insopportabile … e poi quelle brossuracce, impilate a spina di pesce, decine di pile, e l’odore della carta appena stampata (carta d’accatto, che, appena letta, s’arrufferà malinconica) … e poi le classifiche, con altre pile accanto, classifiche che confermano la pubblicità a tamburo battente in cui un meschinello presentava il suo libercolo, la consueta brossura dozzinale in ultima analisi … lordata da concetti da dozzina … tutto questo spettacolo necrofilo dà già il voltastomaco … un disgusto fisico che solo un feroce Ramadan estetico può guarire.
Una cosa è sicura: chi trova accettabile la letteratura italiana d’oggi di solito legge la letteratura italiana d’oggi. E da quelle bassezze giudica. Oppure è nel ramo: le sue entrate mensili, insomma, colano dall’indotto generato dalla letteratura italiana d’oggi (recensori, giornalisti, editori e parastatali vari). Oppure è un fesso.
Non che le cose andassero meglio mezzo secolo fa. Esempio. Il 22 aprile 1973 vien pubblicata la recensione di Pier Paolo Pasolini a una silloge di poesie, in larga parte italiane; egli oscilla tra noia e irritazione. Esclama: “In Italia c’è un numero enorme di poeti che scrivono delle poesie come se svolgessero dei compiti … le loro esperienze, del resto, non si distinguono dalle esperienze di qualsiasi piccolo borghese italiano: un po’ di malinconia, un grande rispetto per le cose in se stesse, quelle ammodo, qualche viaggio, qualche amoretto reso modicamente metafisico, corretto però da un fare vagamente mondano, in cui si sente il sapore dello stipendio”. Poi si addolcisce e concede che alcuni autori “vanno bene”; improvvisamente, però, si pente della menzogna e chiude con una fucilazione: “Ho letto questo libro lontano dall’Italia, in paesi in cui l’Italia non è nulla, non conta nulla, è conosciuta appena di nome: è forse a causa di questa ottica che di fronte alla letteratura italiana provo un vago senso di stanchezza, di insofferenza, e anche di vergogna, forse per essere meschinamente coinvolto in qualcosa di meschino”. Perfetto. Questo scritto potrebbe chiudersi qui. E però vi è questo da dire: quando Pasolini scriveva (1973) i maggiori del dopoguerra (Moravia, Calvino, Caproni, Montale et cetera) erano ancora in vita. Ungaretti e Quasimodo s’erano spenti da poco; ancor s’aggirava, ominoso, fra i banchi delle patrie lettere (ancora per poco: sarebbe morto di lì a un mese) il mastodonte Carlo Emilio Gadda.
Oggi siamo alle comiche. Non che ci si diverta. Questo no. Son sghignazzi da depressione. E non è tutta colpa dei letterati italiani, per carità. È che sono tempi piccoli. Gli uomini si sono ridotti. Basta ascoltare i loro discorsi. Gli italiani poi … sono microscopici. Baruffe da cortile, pettegolezzi, scemenze assortite. Ciò che sbalordisce nel letterato italiano: la piccineria. Tutto è angusto, minuto, polveroso; e derivativo, anche nelle impennate anticonformiste (in realtà estremamente ossequiose allo spirito dei tempi). Italiano mio, sei piccolo, sempre più piccolo, invisibile. E infatti non ti vedono. Nel 1973 ti avrebbero accusato di provincialismo. Ma quale provincialismo! Ma adesso! Questo non è più provincialismo, ma la resa definitiva a un dio flaccido e snervato. E poi basta osservare i piccoli culti dello scrittore italiano medio. I culti per i santini letterari … anche lo stesso Pasolini: un santino. Pavese: un santino. Anche de Sade: un santino. Sempre meglio che leggerli dirà qualcuno. Per tacere dell’omaggio ai santini stranazionali: Carver, Bukowski, Richler, Auster ... la reverenza verso questa gente: mancanza di un retroterra classico. Solo in assenza di un Petrarca ben digerito si possono provare palpitazioni per merce siffatta. A questa ci ha ridotto uno dei più lunghi periodi di pace e libertà di sempre: a una marmaglia infrollita. Lo diceva il vecchio Yamamoto Tsunetomo, quello dell’Hagakure: “In tempo di pace i costumi si corrompono, si dimentica la guerra, si vive nel lusso, la decadenza spirituale e materiale avanza i vecchi muoiono e i giovani sono interessati solo alle mode”. E Mishima rincarava, citando Yamamoto: “[Yamamoto] sa che l’uomo non vive soltanto della sua vita. Egli sa quanto paradossale sia la libertà umana. E sa che l’uomo, non appena ottenuta la libertà, la prende a noia; e la vita, non appena gli vien data, gli diventa insopportabile … questo spettro si annida nell’ombra … e minaccia l’umanità nei suoi gangli vitali”.
Lontani dalle fonti del dolore e del sangue i sentimenti sono divenuti sentimentalismi e poi pacchetti di emozioni liberamente smerciabili da chiunque. Che vite vivono i letterati oggi? “… qualche viaggio, qualche amoretto reso modicamente metafisico, corretto però da un fare vagamente mondano, in cui si sente il sapore dello stipendio”. Il solito andirivieni mediocre … parassitario … quali passioni dovrebbero erompere da tali petti? Giuseppe Prezzolini, dopo la disfatta di Caporetto, si arruolò subito nel Regio Esercito per combattere gli Austriaci lungo il Piave; prima di partire ebbe a lagnarsi della gravidanza della moglie: non è che tale accadimento m’impedirà di andare al fronte? Il capitano Prezzolini … v’immaginate oggi Nicola Lagioia o Veronesi irritati per il futuro parto della consorte? “Proprio adesso che avevo oliato il mio M16 per andare a combattere l’IS in Siria a fianco di Assad … vecchio alleato dell’URSS … no pasaran!” Questi al massimo si possono lagnare se gli sfugge il last minute su trivago.it …
Ah, gli intellettuali d’oggi … la realtà e le epoche sfuggono loro da sotto il naso e manco una piega … l’Italia e l’Occidente implodono, un movimento storico-sismico che non ha eguali negli ultimi due secoli e loro lì, a organizzare facezie … analfabeti funzionali della realtà …
E poi basta guardarli in faccia: placidi, grassi, slabbrati … li smuove al massimo la cupidigia della mazzetta RAI … oppure isterici, con musi da cercopitechi, o botoli da tartufi … non li smuove più niente, non li eccita alcunché … nessuna meraviglia a incitarne le voglie soddisfatte e spente … al massimo arroganti: poiché loro hanno le competenze … qualche attestato burocratico strappato chissà dove e trasformato in passepartout valido erga omnes (leggi: verso chi non ha aderenze) per la Bengodi universitaria, giornalistica, critica … massonica, insomma … immersi in un liquido amniotico che li culla dolcemente in una ebetudine da oppiacei, non sentono niente, non provano nulla. La realtà disancorata dall'azione e dal pensiero ...
Non sono un guerrafondaio, ma occorre riconoscerlo: arte e democrazia non vanno d’accordo … ma, di più, arte e basso edonismo sono ontologicamente incompatibili … volete la pace? Allora non avrete l’arte … crediamo davvero che Marinetti e D’annunzio fossero solo degli imbecilli e solo dei fascisti? Suvvia, il liceo l’abbiamo frequentato secoli fa, possiamo azzardare qualcosa di più …
E poi cosa pensano i letterati italiani? Hanno un loro pensiero, al di là del tritume della loro breve ideologia da operetta, spesso interessata? Se ce l’hanno, un pensiero, questo non è più personale, ma attinge esclusivamente al serbatoio unico del politicamente corretto, letterario e civile. Ce l’hanno una visione del mondo, organica? Uno sguardo personale, estraneo alla favola dell’oggi? O si limitano a ossequiare il breviario del bene? Ideologia, universo, estetica, pensiero, sistema. Qualunque ideologia purché ve ne sia una. Forte, oggettiva, ineccepibile, incombente, proterva, fanatica, unica. Una qualsiasi: esoterismo, nazismo, razzismo, Gaia, comunismo cinese, pitagorismo, materialismo, neotomismo, scetticismo heiserberghiano. Vien voglia di urlargli contro: una, sceglietene una, ma che sia portata alle conseguenze estreme, senza tentennamenti; e che guidi cuore e penna, fra passione e strazio. Una, per Dio! Basta con questo incedere igienizzato, generico, corretto, politicamente smussato, da idropici; basta indossare la flaccida pelle di un'equidistanza a noi aliena, il costume d'un sentire scipito, amorfo - scelto per l'incapacità di ferire.
Ma no, non c’è niente da fare … qualsiasi dissenso li terrorizza; o loro ripugna. Anche i tentativi di ribellione, come goffi pugni tirati nell'aria, ricadono nell'alveo del conformismo. Perché i Nostri, attenzione!, sono buoni. Sommamente buoni. Avete mai udito una dichiarazione fuori dai denti di uno dei nostri letterati? Anche piccina … piccina come loro, intendo. Mai. Loro sono i buoni, i corretti … fra dire la verità e passare per coglioni non hanno il minimo dubbio … la verità mai! Si rischia di urtare qualche suscettibilità e lo Zeitgeist imperante … e perdere i favori del sovrano … per questo il loro linguaggio è povero, sciatto, devitalizzato ...
Ogni passione spenta, essi sono animati esclusivamente dal narcisismo, dall'anelito a veder oggettivata la propria anima meschina e inautentica sulle pagine da mostrare ad amici e parenti. Più che anima: una coratella.
E questi esseri comatosi sfornano la nostra letteratura … zombificata ben oltre l’irrigidimento del luogo comune. E dovremmo prenderli sul serio.
E si taccia pure della grande esclusa della letteratura d’oggi: la natura. I rapporti con la natura sono goffi, mediati o inesistenti. Non ci si riferisce al semplice descrittivismo, ma alla completezza dell'artista. Un artista, un letterato può discorrere di qualsiasi cosa, anche le minutaglie; deve, tuttavia, recare in sé quel sentimento di pienezza, unità di umano e naturale, traverso cui guardare ogni più minuto accadimento. Solo allora le sue pagine porteranno il segno della grandezza. Un tale incipit: “L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma” è oggi impossibile. Il fuligginoso letterato nostrano, aduso alle scartoffie e alla tecnologia e al basso cabotaggio burocratico e parastatale, non sa più cosa sia il sole, la primavera … persino quell’aggettivo, “aureo”, gli riesce alieno … e quel “tepor velato”? Lui crede di sapere cosa sia, ma non lo sa. Ecco perché l’afflato romantico, qualsiasi via verso il sublime, verso ciò che è grande e superiore (e che forma la tragedia e la commedia nell’accezione più alta) gli è vietato. Ecco perché egli è stitico, e fatica persino a darci queste breccole pietose.
Per loro la scrittura non è la vita; le parole sono elementi accozzati insieme in ossequio al gusto dominante. Non sono vergate nel sangue; le conseguenze inesistenti; la loro matrice risiede non in una ideologia nutrita da succhi e sentimenti propri, sofferta e tenace … ma nella minutaglia condivisa nella mediocrità, il che gli assicura un ritorno di applausi e pile di brossure … avete mai visto come Gramellini si lecca le labbra dopo le sue battutine da sedia elettrica? Un che di erotico lo attraversa … presagisce il clap clap inevitabile … osservatelo bene … almeno quanto presagisce la pila alla Feltrinelli che lenta cala, presa d’assalto (il giorno dopo! Si batta il ferro finché è caldo) da quei poveri coglioni succubi …
E il rapporto con il passato? Possibile che il nostro passato sia stato completamente estirpato dalla considerazione e dal sentimento degli intellettuali italiani? Che Ovidio e Petrarca non parlino più a un uomo di buona cultura? Possibile che l'oblio abbia inghiottito l'Italia dei paesaggi, delle mura, degli scorci, dei boschetti, dei colori meridiani, delle campagne, delle architetture - quella nazione eterna che donava linfa all'arte e alla nostra poesia e prosa? Ma sì, basta guardare a chi sono devoti tali figuri. Ai santini. Artisti a loro prossimi, innocui, oppure purgati dell’essenza più aspra. Gli Italiani degli altri secoli, gli Italiani forti, i nostri letterati non sanno neanche chi siano. A meno che non tornino utili per una tesina o un saggetto debitamente lucroso (da farsi scrivere dal negro di turno, beninteso).
Volete soffrire o no? Creare qualcosa? Cosa volete?
So ben io cosa. Ai Nostri piace giocare: si autorecensiscono, si mandano finte stroncature, si ritrovano nei baretti, ai convegni, una tartina dopo l’altra, godono sotto i baffi del loro minuscolo potere (un posto in una casa editrice, in un giornale, sulla pedana d'una scuola o università) ... perdono tempo … il mondo scorre davanti ai loro occhi, immane … eppure niente … l’importante è la paghetta a fine mese, la piccola rendita, il colpo di fortuna del posticino che si libera … posticino adocchiato lungamente ... e di cui hanno confabulato da tempo umiliandosi debitamente … dopo aver squadernato le competenze, inoppugnabili.
Perch’i’ no spero de tornar giammai … ballatetta in Italia, va’ tu gentile e piana … non spero più nell’Italia. L’Italia è sparita, finita … con la consueta contraddizione: che ancora sembra esserci … ma è finita, ve lo posso assicurare. Anche Roma è finita, disintegrata, annientata, rapallizzata, anche se ognuno di noi esce per le sue strade ogni giorno.
A meno che … un miracolo … non ci salvi una guerra … azzerando le ipocrisie … ridisponendo al posto giusto gli elementi della psicologia nazionale … disincrostando le parole …. raschiando i palinsesti del nulla … e allora … chissà che non riaffiori l’antico, amato, familiare incedere del genio del popolo.
Perch’i’ no spero